Claudio Bertolotti (CEMISS): “Un intervento diretto finalizzato al contrasto del terrorismo…”
Un intervento diretto finalizzato al contrasto del terrorismo non può prescindere dall’impiego di truppe sul terreno
di Luca Tatarelli – Report Difesa
Roma. La situazione attuale del Medio Oriente, la questione libica e la minaccia jihadista, con le conseguenti risposte che deve dare la comunità internazionale nell’analisi che Report Difesa ha fatto con Claudio Bertolotti, esperto del CEMISS (Centro Militare di Studi Strategici).
L’analista Claudio Bertolotti
Dottor Bertolotti, quanto sta accadendo in Siria che ruolo impone alla Turchia? In particolar modo dovranno cambiare i rapporti tra questo Paese e la NATO?
La Turchia è alla ricerca di un ruolo a livello regionale maggiore rispetto al passato. Le ragioni di politica interna, la ricerca di un maggior consenso e la gestione della “questione curda” sono le basi sulle quali il Presidente turco Erdogan sta costruendo una strategia nazionale con un forte impegno estero, anche attraverso l’utilizzo dello strumento militare. La questione siriana che, in maniera diretta e indiretta ha coinvolto la Turchia nel corso degli ultimi 7 anni – non sarebbe potuto essere diversamente essendo due Paesi confinanti con interessi, sia comuni che divergenti – ha offerto ed offre alla Turchia la possibilità di agire nell’ottica di perseguire il proprio interesse nazionale. E questo avviene indipendentemente da quelli che sono gli interessi dei Paesi europei, della stessa Unione Europea e della NATO, di cui la Turchia è uno degli attori principali.
Quanto la Turchia sta facendo non rafforza la posizione di Ankara all’interno della NATO, ma di certo non ne inficia il ruolo, né il contributo.
Ma si potrebbe paventare il ricorso all’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Atlantica qualora la Turchia fosse attaccata?
Dipende da chi potrebbe attaccare la Turchia e dove. L’articolo 5 del trattato dell’Alleanza Atlantica parla chiaro quando ne definisce il perimetro di intervento che è quello di uno scenario che preveda un attacco armato contro uno o più Paesi alleati “in Europa o nell’America settentrionale”.
Un’azione militare contro la Turchia, ipotizziamo da parte delle Forze Armate siriane su suolo siriano, non rientrerebbe in tale perimetro. Sarebbe invece necessario l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dall’altro lato, la Siria avrebbe tutto il diritto di reagire nel rispetto delle relazioni internazionali e dello jus ad bellum.
L’Italia ha molto sostenuto la lotta per l’indipendenza del popolo curdo. Oggi quale può essere il loro ruolo nell’area?
L’Italia ha sostenuto le milizie curde dell’Iraq nella loro lotta di resistenza all’avanzata del cosiddetto “Stato islamico” (o ISIS) quando questo era in fase di espansione e minacciava l’intera sicurezza regionale. Il contributo italiano, in termini di Security Force Assistance attraverso gli istruttori militari italiani e la fornitura di equipaggiamenti militari, si inserisce nel più ampio scenario delle conflittualità regionali che, pur interessando la Siria e l’Iraq, hanno visto il nostro impegno concentrarsi esclusivamente sulla capacità operativa delle unità curde irachene in un’ottica di reciproco interesse.
Passiamo ora ad analizzare lo scacchiere medio orientale. Il pieno attivismo dell’Arabia saudita potrebbe causare uno scontro politico-diplomatico o militare tra questo Stato e l’Iran?
La rivalità tra Arabia Saudita e Iran non è una novità. Anche prima della rivoluzione del 1979 che ha portato all’instaurazione della Repubblica islamica, l’Iran di Mohammad Reza Shah Pahlavi era guardato dal mondo arabo come un rivale regionale. All’epoca però Teheran era in ottimi rapporti con gli Stati Uniti e con Israele. Oggi, con i rapporti non ottimali tra Iran, da un lato, e Stati Uniti ed Israele, dall’altro, le tensioni tra Teheran e Riad hanno raggiunto un livello senza precedenti, ma ritengo molto improbabile uno scontro diretto tra Arabia saudita e Iran. Al contrario, uno scontro indiretto è già in essere, nello Yemen, ma anche in Siria. È una questione di competizione per la leadership regionale.
Nonostante il clamore mediatico e politico sulla crescente minaccia iraniana nella regione, l’Arabia Saudita è rimasta praticamente sola nel confronto con Teheran. Il che ci porta all’unica soluzione plausibile per la competizione tra i due Paesi che è quella diplomatica, non certo quella del confronto militare diretto. Ognuno sta giocando le proprie carte. Ma senza alzare troppo la posta in gioco.
Restando nella stessa area, ci interroghiamo su Israele e sul Libano. Come valuta il CEMISS la situazione tra questi due Paesi?
In un incerto sistema di equilibri interni al Libano, la crescita di Hezbollah – il movimento più importante della componente musulmana sciita – rischia di rompere quegli equilibri interni che hanno mantenuto negli ultimi anni una pace precaria. Più che all’interno, però, la crescita di Hezbollah preoccupa Israele (e l’Arabia Saudita).
Il ruolo di Hezbollah è stato conquistato sul campo di battaglia siriano contro il cosiddetto Stato Islamico, al fianco dell’Iran. Hezbollah è oggi la più forte e capace fanteria leggera dell’intero Medio Oriente; inoltre, l’accresciuto ruolo del partito sciita in Libano è stato conquistato con buona pace ma giusta preoccupazione da parte di Israele che di certo non è rimasto a guardare in questi anni, ma che non ha potuto che prendere atto del cambio degli equilibri interni al Libano così come di quelli dell’intero arco regionale. Si tratta, dunque, di una dinamica in cui la nomina dell’ambasciatore del Libano in Siria ha ufficializzato il riconoscimento legittimo di Bashar al-Assad, scelta non apprezzata ovviamente da Israele che nell’asse Assad-Hezbollah e Iran vede un’unione di forze minacciosa.
Un’altra area che viene molto monitorata è quella del Nord Africa, in particolare della Libia. Quale potrebbe essere il ruolo di questo Paese nei prossimi anni?
Un ruolo chiave, certamente per la stabilità dell’area mediterranea e in particolare per i Paesi del Nord Africa. Inoltre, la stabilità della Libia è una condizione imprescindibile per l’Italia. Lo è dal punto di vista energetico. Fino al 2011 importavamo il 25% del nostro fabbisogno energetico, e l’ENI ha contratti in vigore validi fino al 2047, senza contare poi gli investimenti fatti dalle 200 aziende italiane che vantano ancora crediti da parte libica.
Lo è dal punto di vista della gestione dei flussi migratori, nel senso che ogni sforzo possibile deve essere fatto per contrastare l’odioso traffico illegale di esseri umani.
Infine lo è per quanto riguarda la lotta contro la criminalità transnazionale che spesso è riuscita a costruire un’economia transnazionale sostitutiva a quella degli Stati, attraverso il traffico illegale di armi, droga e petrolio, che va ad aggiungersi alla tratta dei migranti.
L’Italia ha il diritto di difendere il proprio interesse nazionale, ma ha anche il dovere di farlo a tutela dello Stato e dei propri cittadini.
Scendiamo un po’ giù nel Continente africano, lì dove insistono movimenti jihadisti. Come si dovrebbe intervenire per riportare i Paesi inquinati da questi gruppi alla sicurezza e alla stabilità?
L’opzione politica è l’unica che possa essere presa in considerazione in un’ottica di contrasto al terrorismo jihadista. Un’opzione che ovviamente non esclude l’impiego dello strumento militare. La stabilità dell’area nord africana e sub-sahariana è una priorità, non solamente per l’Italia ma per l’intera Europa.
Un intervento diretto finalizzato al contrasto al terrorismo non può prescindere dall’impiego di truppe sul terreno. La scelta di inviare un contingente in Niger che va ad aggiungersi alle componenti terrestre e di marina in supporto alle istituzioni libiche, né è la conferma.
Ma questo è uno dei passi necessari per il ristabilimento della sicurezza nell’area. Fatto il primo passo, sul piano dell’intervento diretto, è però necessaria una strategia condivisa e di lungo periodo che vada ad agire sulle cause del crescente radicalismo jihadista, in parte alimentato dai foreign fighter in fuga da quello che fu lo “Stato islamico” di Siria e Iraq.
E questo vale tanto per l’Africa quanto per l’Europa: come dimostrato da recenti studi, tra i quali anche quelli del CeMiSS, la minaccia è spesso interna ai Paesi e rappresentata da soggetti radicalizzati che non hanno potuto o voluto recarsi a combattere in Siria. La prevenzione del radicalismo, di cui il terrorismo è la manifestazione violenta, è la base su cui costruire questa strategia.
Intervista originale pubblicata su Report Difesa
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