Così l’Italia può sconfiggere l’estremismo jihadista
Un disegno di legge, ora al Senato, fornisce gli strumenti adatti per contrastare la radicalizzazione nelle carceri, attorno alle moschee illegali, sul web
articolo originale di Claudio Bertolotti del 29 settembre 2017 pubblicato su Panorama
Il terrorismo jihadista – incarnato soprattutto dall’Isis – in Europa è la manifestazione violenta di un radicalismo che cresce e si diffonde attraverso due canali paralleli, raramente collegati tra di loro.
I CANALI DI DIFFUSIONE DEL RADICALISMO
Il primo canale è quello, da un lato, degli ambienti marginali, non controllati – spesso intrisi di salafismo ultra-conservativo e fondamentalismo – come le moschee illegali; e, dall’altro lato, degli ambienti ad “alta permeabilità jihadista”, in particolare le carceri; queste ultime vera e propria fucina di radicali.
Il secondo canale di crescita e diffusione del radicalismo è il mondo virtuale, fatto di gruppi segreti e comunità invisibili ma aggressive nella propaganda e nel reclutamento online; si tratta, in questo caso, di una rapida radicalizzazione di giovani che trovano nell’ideologia religiosa virtuale una valvola di sfogo a frustrazioni personali.
LE RISPOSTE DEI PAESI EUROPEI
È questo un quadro in evoluzione in cui i paesi europei hanno sviluppato propri approcci e risposte.
Così, oltre alle misure repressive più tradizionali, alcuni governi hanno lanciato iniziative di riabilitazione “soft” per “combattere l’estremismo violento – countering violent extremism” (Cve).
Germania, Regno Unito e Belgio hanno sviluppato programmi incentrati sull’integrazione, sebbene tale approccio si sia dimostrato ovunque non produttivo. L’Arabia Saudita, al contrario, ha adottato una strategia basata sull’inserimento dei radicalizzati nel mondo lavorativo e sociale attraverso il matrimonio. Molti di questi programmi sono stati abbandonati.
In Francia e Spagna, paesi pilota del programma di de-radicalizzazione europeo, gli esperimenti si sono conclusi con la chiusura dei centri di recupero.
Nel caso francese si è trattato di un progetto con metodo “socio-antropologico”, avviato nel centro di rieducazione di Pontourney a settembre del 2016 e conclusosi nel luglio 2017, basato sulla volontarietà dei soggetti a prendere parte al progetto di reinserimento civile, all’esterno alle strutture carcerarie. Ma solamente nove sono stati i partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 30 anni, a fronte di 25 posizioni e un programma di dieci mesi: nessuno ha portato a termine il percorso riabilitativo.
SPAGNA
L’esperienza spagnola ha avuto un approccio prevalentemente “psicologico” ed è stata avviata all’interno delle strutture carcerarie di Burgos e Soto del Real. La presenza nelle stesse carceri di soggetti radicali non partecipanti ad attività di de-radicalizzazione potrebbe aver condizionato l’esito del progetto, a causa del condizionamento sociale e culturale.
RISULTATI FALLIMENTARI
Due differenti approcci, socio-antropologico e psicologico ed esterno-interno alle strutture carcerarie, che si sono conclusi con un risultato fallimentare, ponendo in evidenza due fattori sostanziali:
il primo è la conferma del ruolo chiave delle strutture carcerarie nell’alimentare lo jihadismo;
il secondo è l’inefficacia dell’approccio di breve-medio periodo, su soggetti in cui la devianza è fortemente radicata.
LA VIA ITALIANA
La via italiana al recupero e di reinserimento sociale di soggetti radicalizzati prevede (una volta licenziata anche dal Senato; la Camera l’ha approvato nel luglio 2017):
- corsi di formazione specialistica per le forze di polizia, tesi a riconoscere e a interpretare segnali di radicalizzazione e di estremismo jihadista;
- e, al contempo, attività di formazione e aggiornamento degli insegnanti, al fine di prevenire episodi di radicalizzazione fra i giovanissimi in ambito scolastico.
- A ciò si affiancherà una strategia comunicativa basata su un’efficace narrativa alternativa e contro-narrativa, in particolare sul Web;
- sarà inoltre realizzato un “Sistema informativo sui fenomeni di radicalismo jihadista”, utile anche per la promozione di percorsi mirati di inserimento lavorativo dei soggetti a rischio.
- Infine, un Piano nazionale per garantire ai soggetti condannatie internati, interessati da tali fenomeni, un trattamento penitenziario teso anche alle loro rieducazione e deradicalizzazione.
Dunque, dalle parole ai fatti.
E questo è importante poiché, oggi più che mai, il reclutamento online di potenziali radicalizzati europei e il ritorno degli jihadisti dalla Siria e dall’Iraq rendono tutto più pericoloso, tanto più che ci si riferisce ad un gruppo relativamente ampio di migliaia soggetti con differenti profili psicologici, percorsi, traumi e motivazioni. Per questi motivi si rende opportuno applicare strategie che non guardino solo ai singoli soggetti bensì alla grande comunità di cui sono parte.
Il radicalismo islamico è un fenomeno sociale che utilizza il terrorismo come tecnica di lotta violenta: riconoscerne le origini sociali è il primo passo verso una strategia di successo a lungo termine, pur nella consapevolezza che la radicalizzazione lascerà tracce indelebili nella mente degli ex-jihadisti. Con questo dovremo convivere
There are no comments
Add yours