Counter Terrorism: Il modello israeliano e l’approccio europeo
di Rebecca Mieli, Analista indipendente – Sicurezza e Medioriente
Il modo con cui lo Stato di Israele affronta la minaccia terroristica è senza dubbio singolarmente influenzato dalla particolare posizione geografica del Paese. Nonostante la diversità regionale, gli Stati d’Europa – storicamente meno minacciati dal terrorismo jihadista – potrebbero estrapolare best practice ed elementi di contrasto efficaci. Il punto più debole delle democrazie occidentali, in particolare in Europa, è la tendenza a voler contrastare un fenomeno pur mancando di una definizione chiara e condivisa in seno a molteplici realtà nazionali.
Una minaccia, in sintesi, non può essere né studiata con efficacia ne contrastata, in assenza di una definizione e di un’identificazione precisa degli attori e delle metodologie che sono soliti perpetrarla. In Israele questi studi, avallati dalla necessità di contrastare contemporaneamente più di un’organizzazione indicata come terroristica (ad esempio Hamas, Hezbollah, Islamic Jihad e Stato islamico nel Sinai) nonché “Lone Wolf” accomunati solo da propositi anti-israeliani, hanno contribuito a semplificare le strategie di contrasto del terrorismo jihadista a seconda delle componenti fondamentali di “motivation” and “capability”. Ad esempio, Hezbollah è considerata un’organizzazione ibrida, che in nome di un obiettivo politico colpisce sia militari (guerriglia) che civili (terrorismo). Tuttavia le “best practice” israeliane indicano alcuni obiettivi strategici di lungo periodo che contribuirebbero all’erosione del fenomeno. Ad esempio, quando la risoluzione delle cause di conflitto non è raggiungibile (perché si tratta di episodi traumatici del passato, o per motivi puramente ideologici), l’obiettivo della Nazione deve essere quello di intaccare la motivazione e la capacità operativa dell’organizzazione terroristica che minaccia la sicurezza del Paese.
Nel primo caso si può operare su base sociologica e integrazione (per quanto concerne il rischio di attacchi perpetrati da “Lone Wolf”), prevenire la radicalizzazione online con misure di contrasto sul piano informatico, tenere sotto controllo la permeabilità dei confini e contrastare il sorgere di quartieri-ghetto. Se a causa di pressioni politiche (che comportano una riduzione dei finanziamenti), misure punitive con valore di deterrenza, riduzione del supporto emotivo delle comunità islamizzate, o, ancora, di contrasti interni tra i vertici dell’organizzazione, venisse a mancare il collante motivazionale, il rapporto costi benefici dell’attività terroristica si potrebbe sbilanciare al punto di determinarne il fallimento.
Importanti, in tal senso, sono le sanzioni contro gli Stati che sostengono il terrorismo. Boicottaggio economico ed embargo culturale, sociale e accademico da parte dell’Unione Europea potrebbero ridurre notevolmente, ad esempio, i massicci finanziamenti dell’Iran ad Hamas e Hezbollah, entrambe designate (Hezbollah solo l’ala armata) come organizzazioni terroristiche dall’Unione. Il law enforcement può anche operare per ridurre le capabilities – ad esempio nel caso dell’Homegrown terrorism, – confiscando beni “sospetti”, operando controlli capillari sui punti di contatto delle varie comunità islamiche, e analizzando i messaggi di odio e intolleranza diffusi nel social network e nel clearnet.
le classi politiche e i legislatori europei si scontrano con una certa difficoltà nel far corrispondere i valori democratico-liberali con la lotta al terrorismo
L’occidente, poi, deve affrontare anche il dilemma della democrazia. A partire dal punto di vista legislativo, fino a quello giudiziario, legato alla paura dell’effetto boomerang delle condanne e al tema della radicalizzazione nelle carceri, passando per l’ipotesi di una strategia di deterrenza difensiva, le classi politiche e i legislatori europei si scontrano con una certa difficoltà nel far corrispondere i valori democratico-liberali con la lotta al terrorismo. Tutti gli elementi della canonica lotta alla criminalità in seno alla società civile vengono sconvolti e ribaltati: dare ampia copertura mediatica ad un attentato, ad esempio, rende i gruppi terroristici soddisfatti e ne aumenta la motivazione; allo stesso modo le misure punitive, dalla censura fino all’imprigionamento passando per le espulsioni preventive, vittimizzano l’aggressore rafforzando la percezione di ingiustizia alla base delle sue azioni. Israele, invece, nei due scenari di maggiore impegno contro il terrorismo, ovvero in Libano e a Gaza (senza mai tralasciare i casi di terrorismo interno), ha da sempre operato con il medesimo impegno sia sul contrasto alle attività delle organizzazioni terroristiche, sia sull’educazione della società civile, immersa in una cultura della sicurezza che presenta senza dubbio meno “dilemmi”.
La deterrenza gioca un ruolo di primo piano nella strategia anti-terroristica dello Stato ebraico
La deterrenza gioca un ruolo di primo piano nella strategia anti-terroristica dello Stato ebraico. Quest’ultima è variabile, a seconda del livello di razionalità e dei punti di debolezza del target. Il messaggio può essere veicolato attraverso discorsi di natura pubblica o tramite azioni, e richiede una certa determinazione da parte dei decision maker sia nel fissare delle red line, sia nell’intraprendere (allontanando dubbi morali ed etici) una massiccia risposta offensiva qualora queste venissero superate.
Tra le misure preventive contro le attività terroristiche, l’Europa dovrebbe di certo considerare l’idea di agire sulla popolazione per aumentare sia il senso di fiducia e appoggio nei confronti delle forze dell’ordine, sia per ridurre l’impatto negativo della minaccia sulle paure e sullo stile di vita dei propri cittadini. L’elemento di forza che identifica Israele come baluardo della lotta al terrorismo è proprio insito nell’educazione della popolazione stessa. Oltre alla coscrizione, che senza dubbio immerge tutti i giovani nel settore della difesa, Israele conferisce ai cittadini un ruolo di primo piano nella lotta al terrorismo (immagine di un paese in continua crescita, attività di volontariato e informazione che minimizzano l’impatto morale degli attentati, forte nazionalismo trascinatore). Un errore comune degli stati europei è quello di considerare la minaccia terroristica come un qualcosa di affrontabile tramite l’accezione classica di Intelligence, segreta e anonima. In realtà, rappresentando il “terrore” della popolazione e lo sradicamento dei valori democratici e liberali dell’occidente, il vero target del terrorismo jihadista, è proprio sul rafforzamento di tali elementi che si potrebbe operare con successo. Riducendo l’impatto della paura e del “democratic dilemma”, il cittadino si potrebbe sentire al centro della difesa del Paese, anche semplicemente tramite una segnalazione su Facebook. La riduzione dell’impatto della propaganda online e dell’ansia scatenata dagli attentati renderebbe difficile per il “mandante” la manipolazione dell’opinione pubblica, diminuendo di conseguenza la motivazione alla base delle sua azioni.
il sistema di counter-terrorism israeliano conta sulla resilienza della società civile e sull’erosione delle due colonne portanti del terrorismo: motivazioni e risorse.
In conclusione, il sistema di counter-terrorism israeliano conta su alcuni elementi di importanza vitale che i governi e la difesa europea stanno osservando con molta attenzione. In primo luogo, la resilienza della società civile, che nel nostro continente è ancora in costruzione. In secondo luogo, la riduzione dei dilemmi morali, legislativi, politici e giuridici che renderebbero la lotta al terrorismo poco fluida. In ultimo, l’utilizzo massiccio di strategie di deterrenza (applicabili a diverse organizzazioni terroristiche e attori indipendenti) mirate ad erodere le due colonne portanti del terrorismo: motivazioni e risorse.
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