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Gli italiani che hanno combattuto contro l’Isis e la lezione di Simone Weil

di Luca GuglielminettiRadicalisation Awareness Network – RAN

Simone Weil fin da giovane studentessa aderì ai primi movimenti pacifisti sorti nel primo dopoguerra. Aderì a La Volonté de Paix nel 1927 e poi alla Ligue del droits de l’homme. Di fronte al conflitto di Spagna però assistiamo a un perfetto processo di radicalizzazione violenta che la trasformò in quello che oggi chiamiamo foreign fighter. Tale esperienza è descritta sia nella sua opera Sulla guerra, che nella biografia scritta dalla sua amica Simone Pétrement.
Nella Lettera a Georges Bernanos dell’agosto 1936 scrive: “Non potevo impedirmi di partecipare moralmente a guerra, e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l’intenzione di arruolarmi.” Il suo biografo commenta: “Simone pensava che, quando non si può impedire una guerra, bisogna assumere la propria parte in questa sventura con il gruppo al quale si appartiene”. L’adesione al gruppo nasce dall’empatia verso le sofferenza dei simili dettagliata nella sua autopercezione: “la mia immaginazione funziona sempre in un modo per me molto penoso. Il pensiero delle sofferenze o dei pericoli cui non partecipo mi riempie di orrore, pietà, vergogna e rimorso, un miscuglio che mi toglie ogni libertà di spirito; solo la percezione delle realtà mi libera da tutto ciò”.
Percezione che diventa sinonimo di mobilitazione. Simone Weil varca il confine, si unisce ad un gruppo repubblicano e impara ad utilizzare le armi e ad apprezzare l’adrenalina. Al pensiero di poter essere catturata e fucilata non segue la paura, ma uno stato d’animo di estrema tranquillità. E’ pronta a morire per la causa: “Se mi prendono mi uccidono… Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice.”

Come valutare i giovani italiani accorsi in anni recenti nelle file curde del YPG e YPJ sullo scenario bellico siriano?

La sua forte miopia comportò la brevità della sua esperienza di combattente: un banale incidente la riporterà in Francia per le cure di un’ustione. Là acquisterà una coscienza ‘de-radicalizzata’: “Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra”. Non è venuto meno il suo impegno politico con il suo gruppo, ma comprende che la partita “non era più, come mi era sembrata all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra Russia, Germania e Italia”.
La sua “percezione delle realtà” aveva allargato i confini alla dimensione geo-politica: la “giusta causa” che l’aveva portata ad imbracciare un’arma si è dissolta di fronte alla realpolitik. Cioè la strumentalizzazione del conflitto spagnolo da parte degli attori europei di cui aveva già colto la comune natura totalitaria nell’articolo del 1933: Il ruolo dell’URSS nella politica mondiale.
Come sia proseguita l’azione e la riflessione della Weil negli anni successivi è più noto: privilegiare l’azione “non-violenta efficace”, da una parte, arginare “il peccato originale dei partiti”, dall’altra. Come valutare, invece, la sua lezione nell’esperienza della guerra civile spagnola in relazione ai giovani italiani accorsi in anni recenti nelle file curde del YPG e YPJ sullo scenario bellico siriano e che, soprattutto dopo l’uccisione sul campo di Lorenzo Orsetti, sono stati dipinti come eroi da molti autorevoli commentatori?

Questi ragazzi, sono convinti di essere eroi, disposti al martirio e si presentano piuttosto simmetrici, seppur di segno opposto, ai ragazzi jihadisti

Avendo incontro recentemente due di tali ex combattenti in Siria, Maria Edgarda Marcucci (detta Eddy) e Davide Grasso, mi sono fatto l’idea che siano molto lontani da un risveglio nella realpolitik. Questi ragazzi, sono convinti di essere eroi, disposti al martirio (Orsetti è chiaro in proposito nel suo video-testamento) e si presentano piuttosto simmetrici, seppur di segno opposto, ai ragazzi jihadisti. A livello di radicalizzazione cognitiva il loro odio verso lo Stato Islamico non è della stessa natura di quello che accomuna il sottoscritto o voi che leggete. Ho potuto verificare come la loro disumanizzazione del nemico arrivi in loro, ancora oggi, al punto di non risparmiare minimamente le ragazze partite dall’Italia e i loro figli nati nello Stato Islamico, come Meriem Rehaily e Sonia Khediri, da anni nei campi di prigionia curdi, e che molto probabilmente non hanno toccato un’arma e certamente non l’hanno fatto i loro figli piccolissimi.
Se qualcun li percepisce, e loro stessi si percepiscono, come eroi, la ragione risiede nell’anteporre la buona causa (i fini) ai mezzi: inserire la lotta contro l’ISIS in una cornice di antifascismo internazionale, condita dell’utopia “eco-socialista” e “femminista” del Rojava. Questa dimensione ideologica, ove si ancora la radicalizzazione cognitiva di questi ragazzi e dei loro simpatizzanti, è assai lontana da Simone Weil e da italiani delle brigate internazionali intervenute nella Guerra di Spagna, come i fratelli Rosselli e Franco Venturi, il cui socialismo liberale era viceversa solidamente ancorato al riformismo e alla stessa realpolitik della Weil, che permetteva a tutti loro di osservare non solo i fascismi, ma anche la più generale dimensione totalitaria che accomuna questi ultimi al comunismo.

la loro disumanizzazione del nemico arriva in loro, ancora oggi, al punto di non risparmiare le ragazze partite dall’Italia e i loro figli nati nello Stato Islamico

Concludendo il parallelo, ieri il regime fascista considerava i reduci italiani della brigate internazionali in Spagna come noi consideriamo i foreign terrorist fighter returnee dalla Siria, ma oggi in democrazia questo non è giustamente possibile. Tuttavia è noto che questi ragazzi e ragazze, al loro rientro in Italia, siano subito entrati all’attenzione dell’antiterrorismo per la loro vicinanza ai movimenti antagonisti dell’estrema sinistra. Tuttavia, il 20 giugno 2019, il tribunale di Torino ha rigettato la richiesta della Procura di applicare a due di loro, Davide Grasso e Fabrizio Maniero (detto Jak), la “sorveglianza speciale” prevista dalle misure di prevenzione e sicurezza.  Una decisione che non mi permetto di giudicare, ma che almeno ha il pregio di togliere loro l’alibi di considerarsi anche vittime della repressione “fascista”.
Questi combattenti italiani resteranno quindi degli eroi, come tali lontani da ogni realpolitik, inclusa quella di chi non riconosce il fatto che le loro “antagoniste”, Meriem Rehaily e Sonia Khediri, non avranno lo stesso “privilegio” di subire la valutazione di un Tribunale italiano. Quest’ultime sono in possesso solo di un permesso di soggiorno, i loro figli neppure di quello e rischiano di restare apolidi, senza via di ritorno dai campi curdi.
Questi combattenti italiani nell’ YPG e YPJ sono stati dalla parte giusta, certamente, ma sono paradossalmente “compagni” ignavi che oggi le diseguaglianze globali passano dal possesso di un passaporto: quello che loro si sono tenuti ben stretto.




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