IL RAN: ieri, oggi e domani. La rete europea per le pratiche di prevenzione e l’Italia: un bilancio tra luci ed ombre
di Luca Guglielminetti, Ambasciatore RAN per l’Italia
QUESTO ARTICOLO APPARIRÀ NEL RAPPORTO #REACT2024 SUL TERRORISMO E IL RADICALISMO IN EUROPA, ATTUALMENTE IN CORSO DI LAVORAZIONE. VIENE QUI ANTICIPATO IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA DELLE ATTIVITÀ DEL RADICALISATION AWARENESS NETWORK (RAN)
Quest’anno terminerà l’attività del “Radicalisation Awareness Network – RAN”, la rete europea per le pratiche di prevenzione istituita nel 2011 della DG Home della Commissione Europea, che sarà sostituito dall’ “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”. È quindi tempo per un bilancio di questa esperienza, in particolare nel nostro paese, e di aprire un dibattito sul futuro e il consolidamento di queste politiche e pratiche atte a prevenire e contrastare la radicalizzazione che porta all’estremismo violento e al terrorismo (P/CVE). Politiche e pratiche che implicano una impegnativa e fattiva collaborazione tra attori, ambiti e approcci diversi, come quelli della sicurezza e della resilienza, della repressione e della costruzione di fiducia, della segretezza e della trasparenza, della giustizia retributiva e di quella riparativa, delle istituzioni statali e della società civile, delle autorità nazionali e di quelle locali, dei mass-media e dell’accademia, degli ex terroristi e delle vittime. Esemplificativi binomi che già singolarmente rappresentano delle sfide tutt’altro che risolte e che talvolta, in tutta Europa, hanno indotto dispute, anche aspre, verso queste politiche e pratiche. Tuttavia, almeno le pratiche di P/CVE, sono ormai sedimentate anche in Italia. Il punto è se in futuro si riuscirà a passare dall’attuale stato di frammentazione a quello di una loro valorizzazione strategica.
1. COSA È IL RAN
Poiché l’Italia, come vedremo nel secondo capitolo, è uno di pochissimi Stati Membri dell’Unione Europea (EU) a non aver adottato una strategia o una legislazione nazionale in materia di P/CVE, è opportuno iniziare presentando cosa sia e come funzioni il Radicalisation Awareness Network (RAN), a beneficio di chi non lo conoscesse[1].
Il Radicalization Awareness Network, in breve RAN, è una rete europea orientata alla pratica per la prevenzione dei fenomeni di estremismo violento e terrorismo con oltre 6.000 partecipanti. Il RAN è stato lanciato nel 2011 dalla Commissione Europea ed è da questa finanziata al 100%. Dal punto di vista organizzativo, ha sede presso il Dipartimento per la Migrazione e gli Affari Interni (DG HOME) della Commissione Europea, ma la sua attività è implementata e coordinata, per conto della Commissione EU, da un consorzio che ogni 4 anni è stato rinnovato con gara d’appalto.
Lo scopo delle varie attività e offerte dal RAN è quello di creare reti e scambiare informazioni tra esperti provenienti da diversi settori della pratica di prevenzione e da diversi paesi per prevenire e combattere l’estremismo violento. L’obiettivo è raccogliere conoscenze empiriche e pratiche, insieme a nuove scoperte scientifiche, e renderle disponibili agli operatori professionali, attraverso i seguenti nove gruppi di lavoro:
• Comunicazione e narrazioni (RAN C&N) è focalizzato sugli sviluppi e le tendenze nella comunicazione estremista online e offline, nonché sui modi per contrastarle
• Gioventù ed educazione (RAN Y&E) è incentrato sul rafforzamento degli insegnanti e del settore dell’istruzione nella gestione della radicalizzazione
• Riabilitazione (RAN REHABILITATION) si concentra sui programmi di deradicalizzazione e di uscita, nonché sui servizi di risocializzazione all’interno e all’esterno del carcere
• Famiglie, comunità e assistenza sociale (RAN FC&S) affronta il modo migliore per sostenere i giovani, le famiglie e i gruppi etnici o religiosi che si trovano ad affrontare la radicalizzazione o che potrebbero essere particolarmente vulnerabili
• Autorità Locali (RAN LOCAL) è focalizzato sullo scambio di approcci e strategie che coinvolgono diversi attori locali che perseguono il coordinamento della prevenzione nella sicurezza urbana
• Carcere (RAN PRISONS) è incentrato sull’analisi dell’impatto dei sistemi carcerari, dei programmi di reinserimento e d’intervento mirati ai terroristi condannati
• Polizia e forze dell’ordine (RAN POL) identifica approcci di polizia efficaci, tra cui la formazione, l’uso dei social media e la creazione di fiducia e approcci basati sulle relazioni per lavorare con famiglie, comunità, ambienti e quartieri
• Vittime/sopravvissuti al terrorismo (RAN VoT) mantiene una rete di vittime del terrorismo interessate alle attività di P/CVE e organizza la Giornata europea della memoria e del ricordo delle vittime del terrorismo l’11 marzo di ogni anno
• Salute mentale (RAN HEALTH) sensibilizza gli operatori sanitari e sociali sul loro ruolo nell’identificazione e nel sostegno delle persone a rischio di radicalizzazione
La partecipazione ai gruppi di lavoro funziona attraverso pubblici bandi ai quali gli interessati possono candidarsi e la loro selezione avviene sulla base della competenza, dell’esperienza operativa e del paese d’origine. Gli incontri sono sempre interattivi, orientati all’esempio, all’esperienza e alla pratica. Dopo ogni incontro vengono pubblicati i cosiddetti documenti conclusivi con i risultati principali.
Il RAN pubblica non solo i risultati degli incontri ma anche paper che forniscono informazioni sulle novità della ricerca e delle politiche sui temi della radicalizzazione, dell’estremismo, del terrorismo e della prevenzione. In questo modo divulga le conoscenze pratiche, anche attraverso una collezione di pratiche nei vari paesi europei, agli esperti ed operatori, coinvolti o meno nella rete, aiutandoli a migliorare il proprio lavoro.
I focus tematici principali della rete e gli argomenti dei gruppi di lavoro sono sviluppati nel Comitato di Pilotaggio del RAN in combinazione con sondaggi online inviati ai partecipanti e alla all’incontro plenario annuale del RAN.
Nel corso del tempo si sono aggiunte ulteriori articolazione della rete: nel 2016 “RAN Young”, dedicato giovani europei coinvolti delle attività di prevenzione; il “Poll of Experts” per la scrittura dei “RAN papers” e la revisione delle pratiche collezionate; il programma CSEP indirizzato a finanziare campagne di comunicazione della società civile per contrastare le propagande estremiste. Nel 2021, è stata creata una seconda sezione della rete, “RAN Policy Support”, dedicata principalmente ai decisori politici e ai responsabili negli Stati membri, differenziandosi da “RAN Practitioners” che ha mantenuto la pregressa natura di rete di operatori professionali che lavorano sul campo. Inoltre, sempre nel 2021, una ulteriore articolazione è costituita da “RAN in the Western Balkans” con l’obiettivo di sostenere la prevenzione della radicalizzazione in una regione particolarmente vulnerabile. Infine, sono stati nominati dei “RAN Ambassador”, per alimentare la conoscenza della rete negli Stati Membri della UE.
Anche la comunicazione del RAN si è sviluppata nel tempo. Dal solo sito web di presentazione con i gruppi di lavoro, i paper e la raccolta di “Inspiring Practices”, si sono aggiunti via via i canali sui principali social network, la newsletter, i video e i podcast, le infografiche, i webinar e una rivista trimestrale, “RAN Spotlight”, che in ogni numero presenta un argomento diverso.
2. IL RAN E L’ITALIA: EVOLUZIONI E PRIME VALUTAZIONI
Questa seconda parte è in gran parte in forma di testimonianza perché il sottoscritto si è trovato, come unico italiano, ad aver seguito il RAN fin dalla sua fase di progettazione, quando cioè la DG HOME stava svolgendo incontri con gli stakeholders nella prima metà del 2011. Ero allora parte interessata allo sviluppo di questa nuova rete in quando, nei cinque anni precedenti, avevo seguito i lavori di un’altra rete promossa dalla Commissione Europea: quella delle associazioni delle vittime del terrorismo (NAVT)[2].
Nel 2005 le strategie europee di lotta al terrorismo iniziarono a inserire in agenda il tema della radicalizzazione violenta e la sua prevenzione. Queste strategie, e in particolare il Programma di Stoccolma per il periodo 2010-2014[3], pur riconoscendo che le azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di creare una struttura a livello Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della società civile, delle comunità e amministrazioni locali. Tale struttura prese la forma del RAN che nel settembre 2011 a Bruxelles fu pubblicamente lanciata alla presenza della Commissaria europea per gli affari interni, Cecilia Malmström. Era l’anno dell’incerta Primavera araba, ma in sala era ancora forte l’eco delle stragi di Anders Breivik a Oslo e sull’isola di Utøya.
Nell’occasione fu subito chiaro il principale iato esistente tra paesi europei nell’approccio culturale alla sicurezza. I paesi nordici puntavano sul fatto di prevenire che un individuo giungesse a forme di devianza sociale che lo portasse a diventare un criminale; mentre nei paesi del sud Europa, come il nostro, l’approccio era incentrato sul fatto di prevenire che un certo crimine avvenisse. Fu il Regno Unito e le politiche del suo programma “Prevent”[4], maturato in seguito agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, a fornire alla Commissione Europea il know-how per un approccio ‘olistico’ che integrasse la prevenzione della radicalizzazione con la prevenzione dell’atto terroristico.
PRIMO CICLIO: 2012-2015
Nel corso del primo ciclo del RAN, tra il 2012 e il 2015, coordinai, con un collega francese[5], il gruppo di lavoro sulla “voce delle vittime del terrorismo”, partecipando anche agli incontri del Comitato di Pilotaggio, a quelli di altri gruppi di lavoro, alle plenarie annuali e alle due Conferenze di alto livello che allora la DG HOME organizzava per promuovere i risultati del RAN ai decisori politici degli Stati membri della Ue.
Nel corso del primo Comitato di Pilotaggio del RAN, fummo informati che la Commissione Europea avrebbe inserito il tema della prevenzione della radicalizzazione in pressoché tutti i sui programmi e bandi a progetto: da quelli educativi e culturali, a quelli di ricerca e sviluppo, da quelli su sicurezza e giustizia, a quelli per la cittadinanza e la promozione sociale.
Una prima valutazione giunge da questa scelta che fu veramente strategica perché, almeno in Italia, da quel periodo in poi, le opportunità di finanziamento dei bandi europei portò il tema della prevenzione della radicalizzazione all’attenzione di università, di autorità nazionali e locali, e delle organizzazioni della società civile, con una modalità forse più efficace del RAN[6].
L’aspetto certamente più innovativo del RAN fu il suo modus operandi. L’intento della Commissione era quello di far delineare le politiche e le pratiche in materia di P/CVE agli operatori che lavorano sui terreni della prevenzione, tramite i “RAN paper” e la collezione di pratiche del RAN, per poi promuoverli ai vertici politici degli Stati membri in occasione delle conferenze “High Level”. Un circolo virtuoso dal basso verso l’alto per ottimizzare l’efficacia di politiche e pratiche di cui beneficiarono molto paesi europei che in quegli anni si andarono dotando di strategie nazionali in materia di P/CVE.
Il numero di partecipanti italiani al RAN era allora di poche decine, a fronte dei 2000 raggiuti nel primo ciclo in tutta la Ue. Del resto, in quel periodo, lo stesso termine radicalizzazione, nell’accezione qui utilizzata[7], era riservato agli addetti del comparto sicurezza, ma completamente alieno ai mezzi di comunicazione italiani, così come ai nostri decisori politici. Ciò nonostante, in occasione del seminario finale del primo progetto italiano di prevenzione nelle scuole, “Counter-narrative to Counter-terrorism (C4C)”, che organizzai a Torino del Novembre 2014[8], con gli italiani del RAN provammo a gettare le basi di un “RAN Italia”, stilando un documento e aprendo interlocuzioni con il Ministero della Giustizia, il cui Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva avviato da qualche anno l’attività di formazione del personale penitenziario in tema di radicalizzazione[9]. Il RAN allora offriva, infatti, assistenza e supporto agli Stati Membri della Ue per la creazione di reti nazionali sul tema, dietro semplice richiesta via email di un ministero. Quell’email non fu mai inviata.
SECONDO CICLIO: 2016-2019
Il secondo ciclo del RAN, tra il 2016 e il 2020, sembrò aprire una svolta per l’Italia. Il conflitto siro-irakeno stava raggiungendo il culmine di ripercussioni anche sul terreno europeo, a partire dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e poi, al suo declino, avrebbe lasciato il gravoso problema dei foreign-fighters e le loro famiglie di ritorno in Europa.
L’eco dell’attentato parigino del 7 gennaio 2015 aprì anche in Italia il tema della prevenzione della radicalizzazione e per la prima volta mi capitò di rilasciare un’intervista sul RAN e i finanziamenti europei relativi. Non penso sia causale il fatto che sia stato il quotidiano cattolico Avvenire a prendere l’iniziativa[10]. Allora non coordinavo più un gruppo di lavoro, ma ero entrato nel Pool di esperti del RAN e il titolo, annunciato dall’occhiello “Gli esperti denunciano”, era: “La Rete Ue anti-radicalismo. Ma l’Italia è in ritardo”[11]. Nell’intervista sottolineai come nel nostro paese il terrorismo restasse una questione solo securitaria di polizia ed intelligence, senza aprirsi all’uso del “soft power” delle politiche europee di P/CVE. Seguirono altre interviste e interventi sui media nazionali, ma questa prima mi condusse a Stefano Dambruoso, a sua volta intervisto nello stesso articolo.
L’allora ex magistrato di prestigio internazionale per la sua inchiesta su al Qaeda in Europa già prima dell’11 Settembre, e parlamentare al lavoro sul nuovo decreto antiterrorismo – poi convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 – era convito sostenitore che, insieme all’inasprimento penale, servisse far seguire anche il lavoro educativo di prevenzione della radicalizzazione. Convincimento che ebbe esito in una proposta di legge intitolata “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”[12], di cui fu primo firmatario insieme all’on. Andrea Manciulli.
Nell’estate del 2016 iniziarono parallelamente, da una parte, la discussione e poi le audizioni della proposta di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari Costituzionali della Camera; e dell’altra, ad agosto, fu istituita, promossa dall’allora Sottosegretario agli Interni, Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul fenomeno della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il primo ricercatore ad aver lavorato sulla dimensione italiana del fenomeno jihadista[13].
Ho avuto occasione di collaborare con entrambe le commissioni e quindi osservare gli eventi da vicino. L’inizio del 2017 si aprì – il 5 gennaio – con la conferenza stampa da Palazzo Chigi del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli Interni Minniti e da Lorenzo Vidino che presentarono il risultato dei lavori della Commissione. Il paradosso di quell’operazione è che non ci furono documenti pubblici. La relazione finale della Commissione, che contiene, nella sua seconda parte operativa e per la prima volta in italiano, la descrizione dettagliata delle politiche e degli approcci promosse dal RAN, comprese le poche attività svolte a livello locale dai suoi membri italiani, viene secretata e, i giorni seguenti, venne distribuito per i giornalisti solo un breve sunto assai generico. Si giunse così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei mesi a venire avrebbe discusso e approvato una proposta di legge in materia, il documento governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari sull’argomento fu loro precluso, essendo stato fatto divieto ai membri della Commissione Vidino di distribuirla a chicchessia, poiché, nella sua prima parte, conteneva dati ministeriali riservati.
Come noto, la proposta di legge Dambruoso-Manciulli fu approvato solo alla Camera dei Deputati e la fine di quella legislatura avvenne poco prima della sua approvazione al Senato. Nella legislatura successiva (2018-2022), il testo riproposto a prima firma dell’on. Fiano nel 2018 – poi unificato ad analoga proposta a firma dell’on. Perego di Cremnago nel testo unificato: “Misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista (A.C. 243-3357-A)[14] – non ebbe miglior fortuna.
L’esito delle vicende legate a queste proposte di legge è stato quello di rendere l’Italia uno dei pochissimi paesi europei senza una legislazione nazionale o una strategia in materia di prevenzione della radicalizzazione. Tuttavia, il dibattito intorno a quel tentativo si è fin da subito posto, tra gli addetti ai lavori, in termini di merito. La proposta di legge aveva dei limiti, a partire dal parziale recepimento dei risultati della Commissione Vidino, che inducevano alcuni, tra i quali il sottoscritto, a domandarsi se la sua approvazione fosse utile o meno. Uno dei limiti principali era il fatto che il testo fosse focalizzato solo sulla radicalizzazione di matrice jihadista[15]. Il secondo che avesse comunque un impianto securitario che ancorava le attività al Ministero degli Interni e alle Prefetture in sede locale; quando, in quasi tutta Europa, il perno operativo delle attività di P/CVE più efficaci erano le autorità locali, a partire dal famoso modello della città danese di Aarhus, per passare alle “safety-house” delle città olandesi, o ai centri di prevenzione dei lander tedeschi e quelli cittadini di Belgio e Regno Unito. Fu da questa considerazione, e dall’impasse nel 2014 di avviare una rete nazionale (“RAN Italia”) con i ministeri, che nel 2016 ebbero origine i tentativi di avviare delle reti di prevenzione locali nelle città di Torino, Milano ed Udine da parte dei partecipanti italiani del RAN. Delle tre città solo a Torino, dopo alcuni anni di incontri informali tra amministrazione cittadina, forze dell’ordine, amministrazione penitenziaria e organizzazioni della società civile, si giunse nel 2020 all’istituzione di un Tavolo di lavoro sulla prevenzione degli estremismi violenti e all’approvazione di linee guida operative[16] che seguivano gli approcci del RAN.
I quegli anni l’attenzione sui temi si diffuse, come già sottolineato, grazie soprattutto ai progetti europei, condotti o partecipati da partner italiani, nei vari ambiti di prevenzione della radicalizzazione: dalle scuole alle carceri; dai settori della sicurezza urbana, a quelli della resilienza delle comunità religiose; dallo sviluppo di campagne di comunicazione contro la propaganda on line, a quello delle competenze alla cittadinanza delle nuove generazioni. L’esito di questi progetti europei, oltre a un moltiplicarsi di convegni, seminari e pubblicazioni anche in lingua italiana[17], è stato un’ampia attività di formazione verso i tutti settori coinvolti nel fenomeno: le polizie locali, i docenti delle scuole, gli attivisti e i volontari del terzo settore, gli operatori penitenziari, i garanti dei diritti dei detenuti, le guide spirituali religiose.
Ci fu poi un incremento significativo di partecipanti italiani al RAN e quando nel 2016 viene lanciato “RAN Young”, il sottoscritto può segnalare decine di giovani italiani interessati a parteciparvi.
Anche l’ambito accademico italiano sviluppò un interesse per il tema sempre più ampio. Nascono alla fine dello scorso decennio due master universitari a Bergamo e Bari focalizzati sui fenomeni di terrorismo e radicalizzazione[18]. Sia i progetti europei del programma Horizon che quello del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, come PriMED[19], avvicinano decine di professori e ricercatori di diverse discipline alle riflessioni e alle pratiche di prevenzione e contrasto della radicalizzazione.
TERZO CICLIO: 2020-2023
Il terzo ciclo del RAN, tra il 2020 e il 2023, è stato caratterizzato principalmente dallo sviluppo degli strumenti di comunicazione esterna del RAN e dalla creazione del secondo ramo dedicato al supporto ai decisori politici. Naturalmente sono entrati in agenda i nuovi temi legati alle forme di radicalizzazioni connesse alla pandemia da Covid19 e le relative derive estremiste, populiste e antisistema dalle cornici ideologiche sempre più fluide.
Il numero di partecipanti, anche italiani, è continuato a crescere, ma molti incontri si svolgevano ormai a distanza via “call-conference”, con una minore efficacia in termini di networking. Inoltre, la separazione troppo netta tra le attività dell’ambito operativo (“RAN Practitioners”) e quello politico (“RAN Policy Support”) creava uno iato di comunicazione e coordinazione piuttosto controproducente. In questo quadro è significativo il cortocircuito verificatosi con l’introduzione nel 2020 dei “RAN Ambassadors” per alcuni Stati membri. Selezionati, come il sottoscritto per l’Italia, tra i “practitioners” per diffondere i risultati del RAN, ma inabilitati a mantenere relazioni con il contesto politico-istituzionale nel proprio paese.
Infine, l’esempio torinese del Tavolo di lavoro e delle Linee guida per un approccio locale alla P/CVE, ufficializzato nel 2020, non diventerà mai operativo per mancanza di fondi.
3.VALUTAZIONI FINALI E PROSPETTIVE
UN KNOW-HOW A RISCHIO
Abbiamo visto come le politiche europee in materia di prevenzione e contrasto all’estremismo violento abbiano avuto due strumenti principali: il RAN e i programmi con i loro bandi di finanziamento a progetti.
Oltre quanto già evidenziato in termini di ricadute sul nostro paese, vanno considerate e valutati ancora alcuni aspetti cruciali relativi allo scarso impatto che i progetti europei hanno avuto in Italia. Infatti, il profluvio di fondi sul tema nei vari programmi europei ha certamente permesso una buona disseminazione delle tematiche di P/CVE tra i vari stakeholders italiani. Tuttavia, lo scarso impatto dei risultati espressi dalla maggior parte di tali progetti si presta a diverse valutazioni a più livelli. In generale, il limite maggiore alla possibilità di produrre un impatto duraturo, risiede sicuramente nel vulnus creato dall’assenza di legislazione o strategie nazionali. Infatti, come evidenziato fin del 2019[20], il carattere pilota delle esperienze e dei risultati pratici o teorici dei progetti europei in Italia restava tale perché non si potevano evolvere, come un’economia di scala, in politiche e programmi di sistema. Quanto, allora, resta come dato inconfutabile è il fatto che la formazione di centinaia di operatori e ricercatori italiani nei vari ambiti della P/CVE, durante lo scorso decennio, sia un know-how che rischia di restare in gran parte svilito, privo di prospettive e valorizzazione.
IL MONDO CATTOLICO
Il ruolo del mondo cattolico italiano e il suo interesse per la P/CVE, a cui ho accennato in merio alla mia prima intervista sul RAN ad Avvenire, merita una valutazione particolare perché esso ha sempre svolto un ruolo nelle vicende di terrorismo fin dagli anni di piombo, seppur sottotraccia e poco studiato[21]. Come avevo potuto osservare durante la mia quindicennale collaborazione con l’associazionismo delle vittime del terrorismo, la chiesa e il mondo cattolico si erano sostanzialmente disinteressata a loro, con l’eccezione del Cardinal Martini, per oltre trent’anni, per concentrarsi sulla salvezza dei terroristi, cioè sul loro percorso riabilitativo passato per la riforma Gozzini e la cosiddetta ‘legislatura premiale’. Un percorso che di fatto anticipava il concetto di deradicalizzazione, come osserva Dambruoso: “…è bene precisare che il primo timido tentativo di formalizzare il concetto giuridico di deradicalizzazione risale alla legge 18 febbraio 1987, n. 34, incentrata sulla disciplina delle condotte di dissociazione dal terrorismo, definite all’articolo 1 come «il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica»”[22].
Come è risultato poi chiaro dalla prime ricerche scientifiche in merito, l’interesse all’uscita degli anni di piombo fu centrale per il mondo cattolico «per promuovere il disimpegno dal terrorismo e nell’influenzare le politiche pubbliche in questo settore»[23], così come completo il disinteresse per le vittime[24].
Nel 2016 la situazione era decisamente cambiata. Il primo decennio del XXI secolo aveva sancito la centralità alle vittime del terrorismo nel discorso pubblico. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva favorito un compromesso tra le vittime del terrorismo rosso e nero, intorno alla figura di Aldo Moro e la data del 9 Maggio, per celebrare il Giorno della Memoria[25]. Inoltre, nel 2015 era uscito, con vasta eco, il Libro dell’incontro[26]: il resoconto dell’esperienza del gruppo composto da vittime, ex terroristi e mediatori, patrocinata dalla chiesa e dall’università cattolica milanese, che diventerà il testo d’innesto all’introduzione della giustizia riparativa in Italia, fino alla recente riforma Cartabia in materia di mediazione penale[27].
Questo sintetico excursus ritengo spieghi come il fatto che le vittime del terrorismo siano state le prime a introdurre in Italia delle attività esplicitamente indirizzate alla prevenzione della radicalizzazione violenta[28], abbiano attirato l’interesse del mondo cattolico. Dai terroristi dissociatisi dalla lotta armata che si riabilitavano e ‘deradicalizzavano’ attraverso l’impegno sociale nelle organizzazioni del volontariato cattolico, e non solo, dalla metà degli ’80 del XX secolo, si stava integrando un paradigma nei quali erano presenti anche le vittime che si impegnavano sul terreno educativo per prevenire il formarsi di nuovi terroristi e che dialogavano con gli ‘ex’ per provare a riparare e restaurare relazioni riumanizzate e pacificate[29].
Inoltre, tra i molti progetti che ho potuto osservare o analizzare da vicino, non posso qui non citare quella ‘best practice’ nella prevenzione secondaria – indirizzato ai detenuti mussulmani nella Casa circondariale “Dozza” di Bologna – intitolata “Diritti, Doveri, Solidarietà”. Ideata da Ignazio De Francesco – monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata e fine islamologo, con l’appoggio dell’Assemblea legislativa della regione Emilia-Romagna e del Garante dei detenuti[30] – è probabilmente quando di meglio il mondo cattolico abbia espresso in termini progettuali nelle pratiche di P/CVE nello scorso decennio[31].
POLITICHE FRAMMENTATE
Occorre ora precisare cosa abbia inteso nello scrivere mancanza di una strategia nazionale di P/CVE. Al netto del fallito percorso della proposta di legge Dambruoso-Manciulli, nel 2017, presentando alla stampa la relazione della sua commissione, Lorenzo Vidino dichiarava che: «la comunità dell’antiterrorismo ha capito che un approccio basato solo sulla repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in fase embrionale»[32]. Parole che non rimasero senza conseguenze.
Se non una vera e propria strategia, almeno dal 2016 furono attivate alcune iniziative istituzionali lungo tre linee d’intervento: quella delle contro-narrative, quella educativa nelle scuole e quella di deradicalizzazione di singoli soggetti. Al netto dell’attività del Ministero della Giustizia, e il suo Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria (DAP), che continuava a implementare le attività di formazione del personale penitenziario, da una parte, e ad affinare gli strumenti di valutazione del rischio radicalizzazione nella popolazione incarcerata, dall’altra, come nei progetti europei “Rasmorad” e “Train Training”, si sono potute osservare le seguenti iniziative:
1) quelle della RAI, come del resto prevedeva la proposta di legge, che ha prodotto una serie di servizi di approfondimento relati al mondo islamico e carcerario, con una funzione di contro-narrativa verso il vittimismo della propaganda jihadista[33];
2) quelle dell’Ufficio Regionale Scolastico della Lombardia che, con il programma di formazione verso gli insegnati e gli studenti dei poli scolastici di quella regione oggi intitolato “Educazione alle differenze nell’ottica della prevenzione e contrasto ad ogni forma di estremismo violento”, dal 2016 a oggi ha sistematicamente implementato con continuità nelle scuole tale attività di prevenzione primaria[34];
3) quelle di deradicalizzazione, cioè di prevenzione terziaria, che sono state presentate nel numero speciale sul tema del 2018, della rivista dell’intelligence italiana Gnosis, con i primi due casi italiani a Bari e a Trieste, che prefigurano una forma di collaborazione tra l’organo istituzionale preposto all’“Analisi Strategica Antiterrorismo”, il C.A.S.A., e due realtà della società civile: la cooperativa sociale Exit e l’università di Bari.
Sicuramente, sul delicato terreno della deradicalizzazione, ci sono state altre iniziative con esiti incerti o inconclusi, in particolare quelle verso soggetti detenuti nei circuiti di alta sicurezza. Inoltre, nel quado della prevenzione primaria, l’amministrazione penitenziaria si è distinta con l’iniziativa pilota d’introduzione degli imam nelle carceri italiane per garantire il culto ai detenuti mussulmani e così prevenendo un pretesto di vittimizzazione che poteva portare questi a radicalizzarsi. L’accordo tra il DAP e UCOII del 2015[35], e la collaborazione con altre comunità islamiche italiane, è un buon esempio di prevenzione primaria e del carattere frammentato delle iniziative istituzionali messe in campo negli ultimi anni. Il limite, in questo caso, non è costituito tanto dall’assenza di strategie di P/CVE, quanto dall’assenza di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche che definisca un ampio quadro di diritti e doveri reciproci, come avviene per le altre comunità religiose; e di rispetto dei diritti minimi previsti dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle carceri italiane[36].
L’APPROCCIO MULTIAGENZIA E LA SOCIETÀ CIVILE
Si può aggiungere che nel corso di questa fioritura di pratiche di P/CVE in Italia, tra quelle europee, quelle nazionali e quelle locali, tra quelle promosse da enti istituzionale e quelle promosse dalla società civile, ci siano state forme di competizione o di mancata collaborazione che hanno non solo contribuito a creare un quadro frammentato, ma soprattutto hanno limitato quello che nelle politiche europee del RAN viene chiamato approccio multi-agenzia. Cioè una collaborazione fattiva tra gli stakeholder che, in queste pratiche, afferiscono ad ambiti diversi, così come diversi sono gli approcci utilizzati e, pure, le loro competenze e responsabilità. Mentre la comunità dell’antiterrorismo ha una lunga e sedimentata collaborazione tra i suoi elementi (governo, forze dell’ordine, intelligence, magistratura e amministrazioni penitenziarie); l’attività di prevenzione della radicalizzazione determina un setting multi-agenzia allargato ai sistemi educativi formali e informali, il welfare pubblico e privato, le comunità e le autorità locali. L’intento della proposta di legge italiana, infatti, per usare le parole di Dambruoso, era quello: «di trovare una risposta al terrorismo che coniughi misure repressive e un approccio preventivo di collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento»[37].
Il ruolo delle società civile nelle pratiche di P/CVE è stato uno dei fulcri delle politiche del RAN e, non a caso, la grande maggioranza dei circa 150 partecipanti italiani ai lavori del RAN è sempre giunta dal terzo settore[38], erede di quelle organizzazioni caritatevoli del volontariato cattolico che, fin dal XIX secolo, in Italia si prendevano cura della marginalità sociale provocata della nascente industrializzazione. Un ruolo, quello delle organizzazioni della società civile, focalizzato su una cura della devianza sociale basata sulla (ri)costruzione di relazioni sociali fiduciarie[39].
Così, soprattutto intorno alla prevenzione terziaria di un fenomeno come il processo di radicalizzazione violenta che ha come esito reati di terrorismo, il setting allargato multi-agenzia può ben riflettere visioni e funzioni non facilmente conciliabili: come quelle tra le esigenze delle autorità statali competenti a prevenire gli attacchi terroristici attraverso il sistema penale e repressivo, da una parte; e quelle della società civile e delle istituzioni socio-educative competenti alla riabilitazione dell’ex terrorista – la funzione costituzionalmente definita ‘rieducativa’ della pena, e quanto nell’ambito della P/CVE è stato definito di volta in volta ‘deradicalizzazione’, ‘disimpegno’ o ‘uscita’ – dall’altra.
Si può quindi dire che l’approccio multi-agenzia delle politiche e pratiche promosse dal RAN sottende implicitamente un lungo elenco di sfide, che ripercorre le dicotomie presenti nella storia della criminologia, della giurisprudenza e, in ultima analisi, di tutte le scienze umane in merito alla riformabilità o meno dalla natura umana, la possibilità o meno che questa possa essere preventivamente educata o ex-post redenta. Alle quali si aggiungono le sfide relative al delicato equilibrio tra i doveri di repressione e controllo della sicurezza dello Stato, da una parte, e le libertà e i diritti civili degli individui, dei gruppi o dei movimenti sociali, dall’altra.
Il passaggio quest’anno dal RAN al “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”, sicuramente manterrà l’approccio multi-agenzia e mi pare capire, dalla documentazione disponibile, che tra i suoi intenti più rilevanti ci sia quello di saldare gli ambiti degli operatori professioni con quello dei decisori politici e della ricerca scientifica, le cui pregresse separazioni ha probabilmente nuociuto all’efficacia del RAN. In ogni caso, quest’anno si aprirà una fase nuova in Europa verso la quale gli stakeholder italiani sono chiamati a riflettere e confrontarsi.
Per concludere. La lezione del RAN è in qualche modo erede della ‘exit strategy’ italiana dagli anni di piombo. Se allora la fase repressiva di inasprimento penale fu seguita da quella premiale di riabilitazione[40], la sfida sottesa alla proposta del RAN è quella di costruire un percorso non diviso in fasi successive, ma parallele e concomitanti, attraverso le quali provare a costruire un equilibrio tra necessità dicotomiche. Un’antinomia o un gioco cooperativo[41] che è certamente una sfida da accettare se si vuol valorizzare il patrimonio di esperienze e di know-how italiano cresciuto nel nostro paese in questi anni, per giungere a una strategia, magari flessibile, ma non più frammentata. Non dimentichiamo mai che tali politiche e pratiche hanno al centro la coesione delle comunità e la convivenza pacifica del nostro tessuto sociale. Inoltre, scommettere sulla prevenzione è anche economicamente più sostenibile che non gestire future emergenze con lunghe e tragiche conseguenze.
[1] Per approfondire quanto segue, si veda il sito web del RAN, https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en
[2] Tale network era nato a seguito di quello che resta il maggior attentato terrorista sul suolo europeo a Madrid l’11 marzo 2004 e dell’attenzione che seguì da parte delle istituzioni europee verso le vittime del terrorismo, in particolare quella dell’allora Commissario europeo alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini.
[3] Si veda il capitolo “4.5. Terrorismo” del programma: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:115:0001:0038:it:PDF
[4] Parte integrata della sua strategia per contrastare il terrorismo (CONTEST). Si vedano le varie versioni di CONTEST a partire dal 2011: https://www.gov.uk/government/publications/counter-terrorism-strategy-contest
[5] Guillaume Denoix de Saint Marc, in rappresentanza delle due associazioni l’italiana AIVITER e la francese AfVT.
[6] Lo scarso impatto del RAN in Italia di quel periodo è addebitabile all’allora debole comunicazione esterna del RAN, ma anche della scarsa attenzione dei vertici ministeriali italiani inviatati alle “High Level Conference”.
[7] Termine che in verità è sempre rimasto oggetto di dispute sul significato. Qui è inteso come processo cognitivo/comportamentale e sottende (anche se omesso) l’aggettivazione “violenta”.
[8] Si vedano articoli, relazioni e materiali del progetto C4C promosso da AIVITER qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/search/label/C4C e qui https://www.vittimeterrorismo.it/?s=C4C
[9] Nella dimensione formativa del suo personale penitenziario e nel monitoraggio del proselitismo tra la popolazione carceraria. Si veda: Cascini F. (2012). Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico, in “La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere”, Quaderni ISSP n. 9 (giugno 2012)
[10] Sul tema torno nella parte nelle conclusioni del cap.3 sul mondo cattolico.
[11] Si veda il testo dell’articolo di Avvenire del 15 gennaio 2015 a firma Vincenzo R. Spagnolo qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/2015/01/europa-ed-italia-di-fronte-al.html
[12] Proposta di Legge 3558 presentata il 26 gennaio 2016.
[13] Vidino L. (2014). Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione. ISPI
[14] Si veda il Dossier n° 301/2 – Elementi per l’esame in Assemblea 14 marzo 2022: https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0367b.pdf
[15] Lo stesso programma ‘Prevent’ fu ampiamente criticato e dibattuto nel Regno Unito in quegli anni per la scelta di limitarsi ad affrontare la sola radicalizzazione jihadista, e fu quindi revisionato per includere altre forme di estremismo violento. Si veda ad es. l’articolo di Luciano Pollichieni su Limes del 2017: https://www.limesonline.com/limesplus/la-miopia-dell-antiterrorismo-di-sua-maesta-14681306/
[16] Si vedano le “Linee Guida del Tavolo di lavoro multi-agenzia della Città di Torino per la prevenzione degli estremismi violenti” elaborata dal Comitato scientifico istituito dalla città di Torino nel 2018 e approvate dal consiglio comunale nel 2020: http://www.comune.torino.it/cittagora/wp-content/uploads/2020/07/Linee-guida-istituzione-tavolo.pdf
[17] Si veda la raccolta di testi dal sottoscritto per gli operatori italiani del RAN: https://drive.google.com/drive/folders/0Bz7ceziVCVmBV0ZkQUJuNU5YMXc?resourcekey=0-A5HTj1-XheJgKyXqOn0pCQ&usp=drive_link
[18] Rispettivamente diretti dal Prof. Michele Brunelli e dalla Prof.ssa Sabrina Martucci.
[19] Si veda https://primed-miur.it/
[20] Berardinelli D., Guglielminetti L. (2018). Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox. In “7th International Conference on Multidisciplinary Perspectives in the Quasi-Coercive Treatment of Offenders (SPECTO)”, pp 28-33, Filodiritto Publisher
[22] Dambruoso S. (2018). Prevenzione e repressione. La via italiana nel contrasto alla radicalizzazione jihadista. In «Gnosis», speciale Deradicalizzazione, edito dall’AISI.
[23] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.
[24] Si vedano in particolare: Galfré M. (2014). La guerra è finita: L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987. Bari: Laterza; e Guglielminetti L. (2017). La percezione sociale delle vittime del terrorismo. In “Rassegna Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 269-276
[25] In questo caso un percorso parallelo con quanto occorreva nelle politiche europee dopo l’attentato di Madrid del 2004, che porterà l’11 Marzo ad assurgere a giornata europea del ricordo delle vittime del terrorismo.
[26] Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (2015), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Milano: Il Saggiatore.
[27] Tra le novità introdotte con il d. lgs. 10 ottobre 2022, n.150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “riforma Cartabia”) si segnala in particolare l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa, contenuta negli artt. 42-67.
[28] Per un quadro esaustivo di quelle attività si veda: Guglielminetti L. (2018). P/CVE, lavorare coi giovani e le vittime del terrorismo: esperienze, criticità e prospettive in Italia. In “The Prevention of Radicalisation of Young People”, European Project “YEIP”
[29] Per un’analisi storica e dettaglia si veda Bull A. (2018). Reconciliation through Agonistic Engagement? Victims and Former Perpetrators in Dialogue in Italy Several Decades after Terrorism. In “Victimhood and Acknowledgement”, De Gruyter
[30] Si veda la descrizione e i due volumi sul progetto qui: https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta
[31] Per la sua valorizzazione in ambito formativo si veda: Guglielminetti, L. (a cura di) (2019). Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani. Progetto “FAIR”, Ravenna: Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo
[32] Spagnolo R. V. (2017). Terrorismo. «Rischio di radicalizzazione sul web e nelle carceri», Avvenire del 5 Gennaio 2017
[33] Significativa in questo senso la collaborazione dell’allora Direttrice della Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa della RAI, Monica Maggioni, con l’ISPI che cura nel 2015 il volume Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis.
[34] Si veda la convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regionale https://usr.istruzionelombardia.gov.it/wp-content/uploads/2023/11/m_pi.AOODRLO.REGISTRO-UFFICIALEU.0005448.10-03-2022-5.pdf
[35] “Protocollo d’intesa per favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari”, sottoscritto il 5 novembre 2015, tra il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia (UCOII)
[36] Ravagnani L., Romano C. A. (2017). Il radicalismo estremo in carcere: una ricerca empirica. In “Rassegna
Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 277-296. Si veda anche Guglielminetti, L. (2019). Ibid.
[37] Dambruoso S. (2018). Ibid.
[38] Dati ricavati del database dei partecipanti al RAN: https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran/participant-database_en
[39] Si veda il mio contributo nel precedente numero di #REACT 2023 n.4 – Anno 4. Il ruolo delle organizzazioni della società civile nella prevenzione e nel contrasto all’estremismo violento. p. 37-38.
[40] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.
[41] Definizione dal teorico della teoria dei giochi, il matematico statunitense John Nash, citato da De Mutiis C. (2018). Caso di studio. Verso una strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione: una sfida globale che si vince a livello locale. Edito dalla Scuola dell’amministrazione dell’Interno.
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